Giovanni Tabacco, L’emergere delle autonomie comunali
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Dal X al XIII secolo si svolse, nella costruzione  di  sempre  
nuovi  poteri,  un  processo  continuo  di imitazione e di 
variazione:  il potere  regio e  comitale  fu  imitato nell’esercizio 
del banno da parte di mille signorie locali; il banno signorile  
fu a sua volta  imitato nella creazione di distretti domi-
nati dalle collettività cittadine o di borgo;  le comunità rurali non
di  rado  adattarono  alle  proprie  condizioni  ambientali  modelli
offerti  dalle  collettività  cittadine;  ed  anche  nell’ambito  di  una
determinata  dominazione  territoriale,  gruppi  interni  ad  una
signoria o  ad una  città  spesso  si organizzarono  come  centri di
potere, attratti, dall’esempio del signore o del gruppo dominan-
te, ad esercitare qualche  forma di autodifesa militare e di giuri-
sdizione autonoma, pur se in modo parziale o subordinato.
Di  rado ciò avvenne attraverso un atto  rivoluzionario.  «Com-
munio  autem  novum  ac  pessimum  nomen»,  scrisse  il  monaco
Guiberto di Nogent sul principio del XII secolo, di  fronte all’in-
surrezione del comune di Laon (Francia nord-orientale) contro il
suo  vescovo  e  signore,  che  venne  ucciso  in  un  massacro  di
nobili e chierici: ma si trattava di un vescovo non meno violento
dei suoi concittadini. Di solito le coniurationes che davano vita
ai comuni non erano congiure, ma paci giurate fra i cittadini per
garantire la sicurezza comune, e consentite dal signore della città
o del borgo. In Francia, nelle carte signorili del XII secolo, in cui
si concede ai burgenses di  fare  il comune  («burgensibus nostris
... concessimus communiam», o «communiam fieri concessimus»),
per  lo più si aggiunge  l’approvazione di consuetudines, che già
regolavano diritti collettivi di uso di aree incolte, obblighi comu-
ni per il mantenimento di fortificazioni e di ponti, modi di appli-
care pene e multe, spesso anche forme embrionali di autogover-
no: e il termine di consuetudines, il medesimo usato per indicare
molti dei diritti signorili  tradizionalmente esercitati sulle colletti-
vità, testimonia la spontaneità del processo attraverso cui i diritti
delle collettività si formarono e si orientarono verso  l’autonomia
protetta. Una spontaneità che non significa affatto concordia col
potere signorile, bensì dimostra il carattere per lo più occasiona-
le e graduale dei progressi effettuati dalle collettività:  in relazio-
ne con una certa discontinuità di azione del signore, e  in conti-
nua  tensione con  la sua opposta  tendenza a  trasformare  in con-
suetudini oneri imposti in modo parimenti occasionale.
Né sempre si  trattò, nelle carte signorili destinate ai burgen-
ses, di consentire ciò che nel XII secolo era essenziale al comu-
ne:  l’associazione giurata. Anzi, molto più spesso  le carte signo-
rili, per lo meno nel regno di Francia e nelle regioni contigue, si
limitarono  a  concedere  un  complesso  più  o  meno  nutrito  di
franchigie:  ma  queste  non  risultarono  sempre  inferiori,  per  le
limitazioni poste all’arbitrio  signorile e per  il  riconoscimento di
diritti autonomi di giustizia e di governo, alle consuetudini con-
nesse con la concessione di fare il comune. Tutta una gamma di
libertà  e di poteri  comunali  o borghesi  convissero  con  le  con-
suetudini signorili e la progrediente amministrazione regia, in un
intrico  variabile  da  luogo  a  luogo  e  alquanto  fluido  anche  nel
tempo: carte signorili e regie e convenzioni stipulate con  le col-
lettività precisarono via via – prima della cristallizzazione oligar-
chica determinatasi nelle  città dal XIV  secolo  in poi  – diritti di
elezione e di conferma delle magistrature  locali, concorrenza  in
un medesimo luogo di giurisdizioni signorili, regie e comunali.
Il dinamismo politico dei rapporti fra signori e collettività dal
XII secolo fin verso la metà del XIV costituisce una complicazio-
ne  fondamentale  della  struttura  del  potere  in  quei  secoli,  e  la
caratterizza in modo determinante rispetto alle situazioni anterio-
ri e posteriori. Non mai prima, risalendo fino alle origini dell’im-
pero  romano, né mai dopo, procedendo nei  secoli  fino  ad  età
recentissime,  vi  fu  in  Europa  una  così  capillare,  pur  se  labile
spesso,  partecipazione  attiva  delle  popolazioni  alla  formazione
dei nuclei di  forza politica; non mai  la  contesa politica  rispec-
chiò con tanta evidenza la realtà dei movimenti e dei mutamenti
che si producevano nel corpo sociale. E se è fuor di dubbio che
fra  le collettività capaci di affermarsi,  rivelarono una energia di
gran lunga superiore quelle affluite nei vivacissimi centri urbani,
la maggiore sorpresa, per  lo studioso moderno, è  tuttavia  il mo-
vimento manifestatosi  allora nel mondo  rurale:  che  si dimostrò
aperto all’esempio di signori e città, rivendicando franchigie, tra-
sformando  le antiche viciniae – partecipi ai diritti collettivi  sul-
l’incolto pertinente ai villaggi –  in attivi centri comunali, non di
rado capaci di  legiferare, e creando attraverso spostamenti della
popolazione insediamenti dotati di libertà e potere maggiori.
La  complicazione  comunale,  sviluppatasi  entro  il  tessuto
signorile anteriore, operò in modo analogo a questo, riguardo al
problema della disintegrazione e della ricomposizione del potere
politico, cioè nelle due opposte direzioni: per un verso, attraver-
so  franchigie e giurisdizioni concorrenti, contribuì a corrompere
l’idea di un potere unitario, proprio  là dove  il signore  tendeva a
ricostituirlo  su base  locale; per  altro  verso,  là dove più  signori
coesistevano  sul piano giurisdizionale e politico,  senza  riuscire
ad eliminarsi fra  loro,  il comune poté esprimere, a correzione di
una  frammentazione  irrazionale,  l’esigenza  territoriale  unitaria,
pur se nell’ambito modesto, ad esempio, di una città. È significa-
tivo  il  caso  di  Soissons  (a  nord-est  di  Parigi).  La  giurisdizione
temporale sulla città rientrava formalmente, nel XII secolo, nella
potenza patrimoniale della chiesa vescovile, ma molti fra  i diritti
in  cui  quella  giurisdizione  si  frantumava  –  l’alta  giustizia,  le
multe  e  i  dazi  connessi  coi  poteri  di  polizia  e  di  vigilanza  sul
commercio  cittadino  e  sulle  strade,  i  diritti  di  coniazione  delle
monete  e di protezione degli Ebrei  e dei  forestieri  immigrati  –
erano  dalla  chiesa  vescovile  investiti  feudalmente  alla  dinastia
comitale di Soissons; d’altra parte le immunità ecclesiastiche sot-
traevano  al  conte  ogni  possibilità  d’ingerenza  sulle  zone  della
città  dov’erano  il  palazzo,  i  beni  e  gli  uomini  del  vescovo,  il
claustrum,  i beni e gli uomini del capitolo cattedrale –  le zone
cioè denominate nei documenti come, rispettivamente,  «quartier
de  l’évêque et quartier du chapitre» –, e sull’area più  ristretta di
qualche altra comunità  religiosa. L’unificazione della città sotto
il  profilo  del  diritto  pubblico  era  impedita  dalla  pluralità  delle
signorie presenti in essa: dalla varia dipendenza della popolazio-
ne, secondo  il quartiere  in cui  risiedeva e secondo gli eventuali
vincoli personali  col  conte,  col  vescovo,  coi  collegi  canonicali.
In queste condizioni si sviluppò a Soissons nella prima metà del
XII  secolo  un  movimento  associativo  di  resistenza  contro  gli
oneri  che  in  modo  così  disparato  gravavano  sugli  abitanti,  un
movimento  che  riuscì  a provocare nel  1136  l’intervento del  re:
«eis»  (agli  abitanti  di  Soissons)  «quedam  gravamina  dimisimus,
que a dominis suis patiebantur, unde et ipsis cartam fecimus». Fu
una  carta  di  concessione  di  fare  il  comune,  emanata  non  dai
signori  immediati, ma dal signore supremo,  il re. Ne risultò  limi-
tata  la  libertà dei  tribunali  signorili, a profitto di una  incipiente
giurisdizione comunale: una giurisdizlone che, nell’atto di disin-
tegrare,  quartiere  per  quartiere,  il  potere  signorile,  poneva  le
basi per l’unificazione pubblica della città.
Anche altrove, entro  il regno di Francia,  le autonomie comu-
nali  furono promosse  e  in pari  tempo  contenute dal  lento  cre-
scere del potere  regio dopo  la  crisi del X  e dell’XI  secolo. Ciò
avvenne in qualche misura anche nelle terre d’impero: i regni di
Germania, d’Italia e di Arles  (già  regno di Borgogna). Ad esem-
pio, Torino ricevette da Enrico V nel 1111 un diploma di conces-
sione della  strada  fra  la  città e  le  chiuse della val di Susa e dei
relativi diritti di giurisdizione e pedaggio su pellegrini e mercan-
ti,  e  nel  1116  il  riconoscimento  imperiale  delle  consuetudini
(«omnes usus bonos») e della  libertà spettante ai cittadini,  «salva
solita  iusticia  Taurinensis  episcopi»,  eccettuati  cioè  quei  diritti
temporali  che  sulla  città  potessero  competere  al  vescovo.  Il
comitato  di  Torino  come  ordinamento  territoriale  non  esisteva
più; ed Enrico V,  lungi dal favorire  il ritorno nella città dei conti
di Moriana  (i  Savoia) quali  eredi della dinastia marchionale  ar-
duinica di Torino, promuoveva, di fronte a quella potenza comi-
tale preoccupante, gli interessi e l’incipiente organizzazione poli-
tica della città, solo riservando, con formula alquanto generica,  i
diritti consuetudinari (solita iusticia) del vescovo.
 
2 commenti:
Vorrei aprire una parentesi riguardo un argomento trattato, purtroppo, qualche lezione fa, e chiarire l'effettiva entità del potere che la carica vescovile permetteva di esercitare sul territorio cittadino: come è possibile che il vescovo, in quelli che all'indomani dell'XI secolo diventeranno i Comuni dell'Italia Settentrionale, non avesse posseduto nei secoli precendenti un effettivo potere? Mi sembrerebbe piuttosto proprio il contrario: già dal crollo dell'Impero Romano si può parlare addirittura di "città vescovili", che mutano la loro conformazione urbana in funzione della nuova autorità politica (per esempio luoghi religiosi che assumono un ruolo centrale, come quello di distribuzione dei viveri), dove le figure dei vescovi permettono alle città, o almeno alle principali, di resistere alla crisi politica e alle prime "invasioni". Durante l'Impero carolingio ci si accorge del primato non solo spirituale ma anche civile dei vescovi, i quali vanno a ricoprire spesso la carica di "missi dominici". Con la dissoluzione dell'Impero carolingio e le "seconde invasioni" i vescovi restano nelle città e organizzano la difesa dei cittadini, confermando e rinsaldando il ruolo di preminenza che avevano visto crescere nei secoli, fino ad arrivare nel X secolo al riconoscimento ufficiale dell'Impero da parte di Ottone I con il diritto di immunità (che già si era visto in età carolongia) e la "districtio". Quello dei vescovi mi sembra un potere forte e radicato sul territorio cittadino: era la città stessa a scegliere il proprio vertice politico, il vescovo era un esponente delle aristocrazie cittadine e ne metteva quindi in atto la volontà politica. Di più, questo potere mi sembra anche una premessa necessaria per l'avvento dell'età comunale, figlia di un esigenza di pacificazione sociale che la carica vescovile, indebolita nel prestigio e nel potere dopo la lotta per le investiture tra Chiesa e Impero della seconda metà dell'XI secolo, non riesce a garantire.
La fonte delle mie argomentazioni è "storia medievale" di Massimo Montanari.
Forse mi sono eccessivamente dilungato, spero che la domanda non risulti troppo ampollosa e prolissa. Mi scuso per non aver posto prima la questione, ma ho dovuto risolvere non pochi problemi con la connessione internet.
Lorenzo
Grazie per il suo commento, che è davvero molto pertinente.
Come ho ricordato anche ad Arianna, però, io sottolinerei ancora la differenza tra il livello dei macro-soggetti istituzionali (Chiesa e Impero o Chiesa e Stato se preferisce) e il livello dei particolarismi feudali e cittadini (comunali).
Così ha ragione Lei nel ricordare che sotto i Franchi e nell'Italia bizantina e longobarda i vescovi hanno cooperato al governo delle città, talvolta sostituendosi ai poteri considerati legittimi e talvolta persino diventando feudatari in prima persona.
Tuttavia, questi casi di supplenza dei vescovi come amministratori e certe volte come veri e propri reggenti politici di città e territori più o meno estesi non si sono consolidati né in Italia né in Francia. Solo in Germania abbiamo avuto una cinquantina di principati ecclesiastici.
Faccio un rimando a I poteri temporali dei vescovi in Italia e in Germania nel Medioevo (a cura di Carlo Guido Mor, Bologna: Il Mulino 1979).
La distinzione potere civile/potere ecclesiastico di Prodi andava intesa in senso molto più ampio. Per tornare sul tema occorre aspettare che arriviamo alle pagine di Portinaro dedicate alla cosiddetta "Rivoluzione papale dell'XI secolo"
E' però possibile da subito affrontare la tesi esposta nella "Storia della giustizia" di Paolo Prodi (Il Mulino 2000).
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