sabato 17 ottobre 2009

L’emergere delle autonomie comunali (Tabacco)

Giovanni Tabacco, L’emergere delle autonomie comunali
http://fermi.univr.it/RM/biblioteca/VOLUMI/tabacco/cap.%20%20VII.zip 

Dal X al XIII secolo si svolse, nella costruzione di sempre  
nuovi poteri, un processo continuo di imitazione e di 
variazione: il potere regio e comitale fu imitato nell’esercizio 
del banno da parte di mille signorie locali; il banno signorile  
fu a sua volta imitato nella creazione di distretti domi-
nati dalle collettività cittadine o di borgo; le comunità rurali non
di rado adattarono alle proprie condizioni ambientali modelli
offerti dalle collettività cittadine; ed anche nell’ambito di una
determinata dominazione territoriale, gruppi interni ad una
signoria o ad una città spesso si organizzarono come centri di
potere, attratti, dall’esempio del signore o del gruppo dominan-
te, ad esercitare qualche forma di autodifesa militare e di giuri-
sdizione autonoma, pur se in modo parziale o subordinato.
Di rado ciò avvenne attraverso un atto rivoluzionario. «Com-
munio autem novum ac pessimum nomen», scrisse il monaco
Guiberto di Nogent sul principio del XII secolo, di fronte all’in-
surrezione del comune di Laon (Francia nord-orientale) contro il
suo vescovo e signore, che venne ucciso in un massacro di
nobili e chierici: ma si trattava di un vescovo non meno violento
dei suoi concittadini. Di solito le coniurationes che davano vita
ai comuni non erano congiure, ma paci giurate fra i cittadini per
garantire la sicurezza comune, e consentite dal signore della città
o del borgo. In Francia, nelle carte signorili del XII secolo, in cui
si concede ai burgenses di fare il comune («burgensibus nostris
... concessimus communiam», o «communiam fieri concessimus»),
per lo più si aggiunge l’approvazione di consuetudines, che già
regolavano diritti collettivi di uso di aree incolte, obblighi comu-
ni per il mantenimento di fortificazioni e di ponti, modi di appli-
care pene e multe, spesso anche forme embrionali di autogover-
no: e il termine di consuetudines, il medesimo usato per indicare
molti dei diritti signorili tradizionalmente esercitati sulle colletti-
vità, testimonia la spontaneità del processo attraverso cui i diritti
delle collettività si formarono e si orientarono verso l’autonomia
protetta. Una spontaneità che non significa affatto concordia col
potere signorile, bensì dimostra il carattere per lo più occasiona-
le e graduale dei progressi effettuati dalle collettività: in relazio-
ne con una certa discontinuità di azione del signore, e in conti-
nua tensione con la sua opposta tendenza a trasformare in con-
suetudini oneri imposti in modo parimenti occasionale.
Né sempre si trattò, nelle carte signorili destinate ai burgen-
ses, di consentire ciò che nel XII secolo era essenziale al comu-
ne: l’associazione giurata. Anzi, molto più spesso le carte signo-
rili, per lo meno nel regno di Francia e nelle regioni contigue, si
limitarono a concedere un complesso più o meno nutrito di
franchigie: ma queste non risultarono sempre inferiori, per le
limitazioni poste all’arbitrio signorile e per il riconoscimento di
diritti autonomi di giustizia e di governo, alle consuetudini con-
nesse con la concessione di fare il comune. Tutta una gamma di
libertà e di poteri comunali o borghesi convissero con le con-
suetudini signorili e la progrediente amministrazione regia, in un
intrico variabile da luogo a luogo e alquanto fluido anche nel
tempo: carte signorili e regie e convenzioni stipulate con le col-
lettività precisarono via via – prima della cristallizzazione oligar-
chica determinatasi nelle città dal XIV secolo in poi – diritti di
elezione e di conferma delle magistrature locali, concorrenza in
un medesimo luogo di giurisdizioni signorili, regie e comunali.
Il dinamismo politico dei rapporti fra signori e collettività dal
XII secolo fin verso la metà del XIV costituisce una complicazio-
ne fondamentale della struttura del potere in quei secoli, e la
caratterizza in modo determinante rispetto alle situazioni anterio-
ri e posteriori. Non mai prima, risalendo fino alle origini dell’im-
pero romano, né mai dopo, procedendo nei secoli fino ad età
recentissime, vi fu in Europa una così capillare, pur se labile
spesso, partecipazione attiva delle popolazioni alla formazione
dei nuclei di forza politica; non mai la contesa politica rispec-
chiò con tanta evidenza la realtà dei movimenti e dei mutamenti
che si producevano nel corpo sociale. E se è fuor di dubbio che
fra le collettività capaci di affermarsi, rivelarono una energia di
gran lunga superiore quelle affluite nei vivacissimi centri urbani,
la maggiore sorpresa, per lo studioso moderno, è tuttavia il mo-
vimento manifestatosi allora nel mondo rurale: che si dimostrò
aperto all’esempio di signori e città, rivendicando franchigie, tra-
sformando le antiche viciniae – partecipi ai diritti collettivi sul-
l’incolto pertinente ai villaggi – in attivi centri comunali, non di
rado capaci di legiferare, e creando attraverso spostamenti della
popolazione insediamenti dotati di libertà e potere maggiori.
La complicazione comunale, sviluppatasi entro il tessuto
signorile anteriore, operò in modo analogo a questo, riguardo al
problema della disintegrazione e della ricomposizione del potere
politico, cioè nelle due opposte direzioni: per un verso, attraver-
so franchigie e giurisdizioni concorrenti, contribuì a corrompere
l’idea di un potere unitario, proprio là dove il signore tendeva a
ricostituirlo su base locale; per altro verso, là dove più signori
coesistevano sul piano giurisdizionale e politico, senza riuscire
ad eliminarsi fra loro, il comune poté esprimere, a correzione di
una frammentazione irrazionale, l’esigenza territoriale unitaria,
pur se nell’ambito modesto, ad esempio, di una città. È significa-
tivo il caso di Soissons (a nord-est di Parigi). La giurisdizione
temporale sulla città rientrava formalmente, nel XII secolo, nella
potenza patrimoniale della chiesa vescovile, ma molti fra i diritti
in cui quella giurisdizione si frantumava – l’alta giustizia, le
multe e i dazi connessi coi poteri di polizia e di vigilanza sul
commercio cittadino e sulle strade, i diritti di coniazione delle
monete e di protezione degli Ebrei e dei forestieri immigrati –
erano dalla chiesa vescovile investiti feudalmente alla dinastia
comitale di Soissons; d’altra parte le immunità ecclesiastiche sot-
traevano al conte ogni possibilità d’ingerenza sulle zone della
città dov’erano il palazzo, i beni e gli uomini del vescovo, il
claustrum, i beni e gli uomini del capitolo cattedrale – le zone
cioè denominate nei documenti come, rispettivamente, «quartier
de l’évêque et quartier du chapitre» –, e sull’area più ristretta di
qualche altra comunità religiosa. L’unificazione della città sotto
il profilo del diritto pubblico era impedita dalla pluralità delle
signorie presenti in essa: dalla varia dipendenza della popolazio-
ne, secondo il quartiere in cui risiedeva e secondo gli eventuali
vincoli personali col conte, col vescovo, coi collegi canonicali.
In queste condizioni si sviluppò a Soissons nella prima metà del
XII secolo un movimento associativo di resistenza contro gli
oneri che in modo così disparato gravavano sugli abitanti, un
movimento che riuscì a provocare nel 1136 l’intervento del re:
«eis» (agli abitanti di Soissons) «quedam gravamina dimisimus,
que a dominis suis patiebantur, unde et ipsis cartam fecimus». Fu
una carta di concessione di fare il comune, emanata non dai
signori immediati, ma dal signore supremo, il re. Ne risultò limi-
tata la libertà dei tribunali signorili, a profitto di una incipiente
giurisdizione comunale: una giurisdizlone che, nell’atto di disin-
tegrare, quartiere per quartiere, il potere signorile, poneva le
basi per l’unificazione pubblica della città.
Anche altrove, entro il regno di Francia, le autonomie comu-
nali furono promosse e in pari tempo contenute dal lento cre-
scere del potere regio dopo la crisi del X e dell’XI secolo. Ciò
avvenne in qualche misura anche nelle terre d’impero: i regni di
Germania, d’Italia e di Arles (già regno di Borgogna). Ad esem-
pio, Torino ricevette da Enrico V nel 1111 un diploma di conces-
sione della strada fra la città e le chiuse della val di Susa e dei
relativi diritti di giurisdizione e pedaggio su pellegrini e mercan-
ti, e nel 1116 il riconoscimento imperiale delle consuetudini
(«omnes usus bonos») e della libertà spettante ai cittadini, «salva
solita iusticia Taurinensis episcopi», eccettuati cioè quei diritti
temporali che sulla città potessero competere al vescovo. Il
comitato di Torino come ordinamento territoriale non esisteva
più; ed Enrico V, lungi dal favorire il ritorno nella città dei conti
di Moriana (i Savoia) quali eredi della dinastia marchionale ar-
duinica di Torino, promuoveva, di fronte a quella potenza comi-
tale preoccupante, gli interessi e l’incipiente organizzazione poli-
tica della città, solo riservando, con formula alquanto generica, i
diritti consuetudinari (solita iusticia) del vescovo.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Vorrei aprire una parentesi riguardo un argomento trattato, purtroppo, qualche lezione fa, e chiarire l'effettiva entità del potere che la carica vescovile permetteva di esercitare sul territorio cittadino: come è possibile che il vescovo, in quelli che all'indomani dell'XI secolo diventeranno i Comuni dell'Italia Settentrionale, non avesse posseduto nei secoli precendenti un effettivo potere? Mi sembrerebbe piuttosto proprio il contrario: già dal crollo dell'Impero Romano si può parlare addirittura di "città vescovili", che mutano la loro conformazione urbana in funzione della nuova autorità politica (per esempio luoghi religiosi che assumono un ruolo centrale, come quello di distribuzione dei viveri), dove le figure dei vescovi permettono alle città, o almeno alle principali, di resistere alla crisi politica e alle prime "invasioni". Durante l'Impero carolingio ci si accorge del primato non solo spirituale ma anche civile dei vescovi, i quali vanno a ricoprire spesso la carica di "missi dominici". Con la dissoluzione dell'Impero carolingio e le "seconde invasioni" i vescovi restano nelle città e organizzano la difesa dei cittadini, confermando e rinsaldando il ruolo di preminenza che avevano visto crescere nei secoli, fino ad arrivare nel X secolo al riconoscimento ufficiale dell'Impero da parte di Ottone I con il diritto di immunità (che già si era visto in età carolongia) e la "districtio". Quello dei vescovi mi sembra un potere forte e radicato sul territorio cittadino: era la città stessa a scegliere il proprio vertice politico, il vescovo era un esponente delle aristocrazie cittadine e ne metteva quindi in atto la volontà politica. Di più, questo potere mi sembra anche una premessa necessaria per l'avvento dell'età comunale, figlia di un esigenza di pacificazione sociale che la carica vescovile, indebolita nel prestigio e nel potere dopo la lotta per le investiture tra Chiesa e Impero della seconda metà dell'XI secolo, non riesce a garantire.

La fonte delle mie argomentazioni è "storia medievale" di Massimo Montanari.

Forse mi sono eccessivamente dilungato, spero che la domanda non risulti troppo ampollosa e prolissa. Mi scuso per non aver posto prima la questione, ma ho dovuto risolvere non pochi problemi con la connessione internet.

Lorenzo

Giampiero Brunelli ha detto...

Grazie per il suo commento, che è davvero molto pertinente.
Come ho ricordato anche ad Arianna, però, io sottolinerei ancora la differenza tra il livello dei macro-soggetti istituzionali (Chiesa e Impero o Chiesa e Stato se preferisce) e il livello dei particolarismi feudali e cittadini (comunali).
Così ha ragione Lei nel ricordare che sotto i Franchi e nell'Italia bizantina e longobarda i vescovi hanno cooperato al governo delle città, talvolta sostituendosi ai poteri considerati legittimi e talvolta persino diventando feudatari in prima persona.
Tuttavia, questi casi di supplenza dei vescovi come amministratori e certe volte come veri e propri reggenti politici di città e territori più o meno estesi non si sono consolidati né in Italia né in Francia. Solo in Germania abbiamo avuto una cinquantina di principati ecclesiastici.
Faccio un rimando a I poteri temporali dei vescovi in Italia e in Germania nel Medioevo (a cura di Carlo Guido Mor, Bologna: Il Mulino 1979).
La distinzione potere civile/potere ecclesiastico di Prodi andava intesa in senso molto più ampio. Per tornare sul tema occorre aspettare che arriviamo alle pagine di Portinaro dedicate alla cosiddetta "Rivoluzione papale dell'XI secolo"
E' però possibile da subito affrontare la tesi esposta nella "Storia della giustizia" di Paolo Prodi (Il Mulino 2000).

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