sabato 17 ottobre 2009

La dissoluzione postcarolingia dell'ordinamento pubblico (Tabacco)

Giovanni Tabacco, La dissoluzione postcarolingia dell’ordinamento pubblico
(da Reti medievali:  http://fermi.univr.it/RM/biblioteca/VOLUMI/tabacco/cap.%20VI.zip) 

La fine dell’impero carolingio è solitamente presentata come
smembramento dell’impero in più regni. In realtà già nel corso
del IX secolo l’impero si ridusse assai spesso ad un nome, colle-
gato ad un’idea universale di cristianità: e sotto quel nome già
allora era in atto una pluralità di regni, connessi fra loro soltanto
da una circolazione di cultura ecclesiastica, nelle corti dei
Carolingi e nelle scuole episcopali e abbaziali, e da una comune
prevalenza dell’elemento franco nella grande aristocrazia militare
da cui si reclutavano alti ufficiali pubblici e alti dignitari ecclesia-
stici. La fine dell’età carolingia dev’essere intesa in un significato
ben più profondo di quanto non sia una definitiva divisione fra
questi regni: essa segnò la transizione da un ordinamento pub-
blico certo rudimentale e mal funzionante, ma pur sempre fon-
dato su un disegno uniforme di amministrazione militare e giuri-
sdizionale, a una multiforme convivenza politica in cui i quadri
ufficiali del potere (le circoscrizioni comitali, marchionali, ducali
e i minori distretti interni ed esse) tendevano a dileguarsi di
fronte al crescere spontaneo e irregolare di poteri regionali e
locali, disordinatamente fra loro intrecciati e direttamente emer-
genti dai gruppi sociali egemonici.
È da rilevare che normalmente l’egemonia di questi gruppi
sociali – aristocrazia grande e minore, sia militare sia religiosa –,
pur radicandosi nel grande possesso terriero e nella complessità
dei legami parentali, religiosi e clientelari, non operò sul piano
politico prescindendo dal regno. Il potere regio, così in Gallia
come in Italia e in Germania, conservò la disponibilità di nume-
rose corti fiscali, di folte clientele vassallatiche, di molti vescovati
e di grandi abbazie, e poté dunque nel X e nell’XI secolo interve-
nire con indubbia efficacia, soprattutto in Germania e in Italia,
nella caotica concorrenza fra i poteri politici germinanti ovunque,
sul territorio del regno, dalla volontà di affermazione di famiglie
signorili e di enti religiosi. Intervenne con donazioni in allodio o
concessioni in beneficio di spazi selvosi e di corti agrarie; con
attacchi militari contro singoli potenti, avversi alla dinastia regia,
e con alcune violente confische; con elargizioni di privilegi, che
creavano o riconoscevano isole di giurisdizione immunitaria (le
immunità dei signori ecclesiastici dalla giurisdizione comitale) o
garantivano la riscossione di proventi di origine pubblica, come
dazi e diritti di mercato o di moneta; con elevazioni dell’uno e
dell’altro fedele a dignità pubbliche od ecclesiastiche. Ma questi
interventi molteplici non si configuravano più all’interno di una
più o meno regolare attività normativa e politico-amministrativa,
pur se rudimentale qual era stata quella di re merovingi, di re
longobardi, di re carolingi. Dopo i capitolari del IX secolo, l’atti-
vità legislativa cessò quasi interamente fino al XII secolo. Ogni
intervento del re, a scopo aggressivo o a fini di potenziamento di
famiglie o enti amici, assunse carattere episodico. La potenza del
re, per quanto superiore, almeno in Germania e in Italia, fra X e
XI secolo, a quella di ogni altro potente, non era tale da consen-
tire che il singolo episodio si inserisse in un quadro di governo.
Il re operava come il più potente fra i potenti, ma sempre meno
come fulcro di un ordinamento pubblico, distribuito con un mini-
mo di razionalità attraverso il territorio del regno. Era rispettato
quand’era presente: in virtù della forza militare che lo accompa-
gnava, e del residuo prestigio che gli veniva dal nome regio e
dalla sua sacralità, ma non disponeva di una capacità di azione a
distanza, in virtù di un’organizzazione capillare della potenza
pubblica. Non mancava al potere regio una visione unitaria del
regno, ma come territorio di incontro di una innumerevole ed
eterogenea pluralità di poteri, il cui spontaneo sviluppo esigeva,
ai fini di più o meno pacifica coesistenza, il comune riconosci-
mento di un’egemonia suprema, la potenza del re.
Chi consideri la situazione dei regni franchi alla fine dell’età
merovingia, non può non cogliere già allora i segni di un disfa-
cimento politico, del tutto analogo a quello che poi si effettuò in
età postcarolingia, ed è indotto a domandarsi come sia avvenuto
che nell’VIII secolo lo sviluppo clientelare attorno ai Pipinidi
consentisse il superamento dell’anarchia incipiente, mentre l’ul-
teriore espansione delle clientele vassallatiche accompagnò le
varie fasi dell’impero carolingio e la sua disgregazione e la tra-
sformazione del potere regio in un semplice nucleo di suprema
forza egemonica. La spiegazione può essere anzitutto cercata nel
diverso rapporto che si determinò nella prima età carolingia e
poi tra il IX e il X secolo fra il mondo franco e le forze che lo
aggredirono dall’esterno. Nell’VIII secolo il composito popolo
franco e l’aristocrazia che lo inquadrava trovarono nell’intrapren-
denza dei Pipinidi in ascesa e nella loro clientela di Austrasia un
nucleo di forza aggressivo, capace di guidarli nel respingere e
assalire in tutte le direzioni, fino a sud dei Pirenei e al di qua
delle Alpi e molto ad oriente del Reno, i vecchi e nuovi nemici
del nome franco. L’orientamento offensivo assunto dalle imprese
militari e l’ampiezza delle conquiste territoriali garantirono prov-
visoriamente una solidarietà che la diffusione dei rapporti vassal-
latico-beneficiari in pari tempo accentuava. Ma la diaspora delle
clientele carolingie, provocata dalla necessità di controllo milita-
re e politico di un impero divenuto assai vasto ed eterogeneo,
finì col rendere labili molti fra quei vincoli personali di carattere
bilaterale, su cui in gran parte riposava la fedeltà dei nuclei fran-
chi armati al potere regio. I vassi dominici – i vassalli di un Ca-
rolingio, dotati di beneficio su terre fiscali od ecclesiastiche, per
ordine regio, in una o in un’altra provincia di un regno – tende-
vano a radicarsi nel territorio in cui si insediavano, collegandosi
ai potenti della regione: soprattutto al conte, vassus dominicus
egli pure, ed egli pure indotto dalla lontananza dal Carolingio a
interpretare in forma sbiadita la fedeltà vassallatica, convergente
con la sua fedeltà di funzionario pubblico al re, e a procurare,
nel comitato che egli governava, una nuova base patrimoniale
alla propria famiglia e a sviluppare la sua propria clientela vas-
sallatica, da cui certamente attingeva gli i u n i o r e s attestati nei
capitolari carolingi come seguito comitale e nucleo di funzionari
minori. I vassi dominici dovettero quindi non di rado finire col
confondersi coi vassalli del conte, da cui inizialmente erano
distinti in modo nettissimo; e dovette anche accadere che taluni
vassi dominici, quelli insediati per ordine regio su terre ecclesia-
stiche come precaristi (concessionari a censo assai debole) di
una chiesa vescovile o monastica, si trasformassero in vassalli
del vescovo e dell’abate da cui dipendevano economicamente.
Certo è che le clientele delle grandi famiglie e delle grandi chie-
se cooperarono, non meno che l’espansione del patrimonio fon-
diario, a costituire nuclei di potere signorile, dispersi per il terri-
torio dei regni e capaci di autonomia di fronte alla potenza
regia, proprio quando questa vedeva indebolite, anche se non
mai spente, le sue basi clientelari.
In questa situazione, già di per sé notevolmente diversa da
quella creata nel secolo VIII dalla giovane forza aggressiva dei
Pipinidi, sopravvennero fra IX e X secolo le profonde incursioni
normanne dall’Atlantico sulla Gallia settentrionale ed occidenta-
le, le scorrerie ungare dall’Oriente su tutta l’Italia del nord e
sulla Germania, e gli assalti saraceni dal Mediterraneo sulle coste
provenzali e italiane, con infiltrazioni lungo tutto l’arco delle Al-
pi occidentali. I compositi eserciti dei re carolingi e immediata-
mente postcarolingi, ormai prevalentemente formati da clientele
regie e signorili disperse e lente a riunirsi per una mobilitazione
comune, di rado riuscirono a reagire con tempestività e coeren-
za. Ancora una volta sul mondo dominato dai Franchi parvero
convergere attacchi da ogni direzione, ma lo spazio che ormai
occorreva proteggere era immenso, né vi erano – prima dell’età
degli Ottoni (Ottone I, Ottone II, Ottone III, re e imperatori nella
seconda metà del X secolo). – raggruppamenti militari pronti a 
stringersi intorno a dinastie tese verso grandi conquiste: conquiste
del resto impossibili nelle direzioni settentrionale, occidentale e meridio-
nale, là dove le incursioni provenivano da flotte ardite di Vichin-
ghi e di Arabi, mentre il mondo franco continuava a ignorare,
come aveva ignorato in tutta la sua storia anteriore, le avventure
dei mari. Una reazione lenta e pur efficace agli assalti tuttavia
non mancò, ma fu di un carattere singolarissimo. Signori laici ed
ecclesiastici, a difesa dei propri beni e dei propri uomini e delle
collettività rurali o cittadine in cui erano inseriti, eressero nell’in-
terno dei territori minacciati di incursione ripari improvvisati, per
lo più di legno, ma tali in ogni caso da suggerire agli invasori,
privi di piani di conquista e avidi soltanto di preda, deviazioni
dai nuclei abitati protetti. E questi ripari, dapprima costruiti per
una spontanea e provvisoria difesa, spesso non organizzata né
coordinata dal potere regio, finirono molte volte col sopravvive-
re al pericolo esterno, contro cui erano stati eretti, e col divenire
strumento ulteriore, in connessione con patrimoni fondiari e
clientele armate, di potere locale. Furono anzi imitati, dal X se-
colo in poi, con la costruzione di altri ripari e fortificazioni, che
prescindevano ormai da ogni esigenza di protezione da incursio-
ni lontane e obbedivano soltanto alla volontà di difesa e di offe-
sa di nuclei signorili o di collettività, entro la generale competi-
zione politica.
La prima attestazione dello spontaneo moltiplicarsi di tali
difese e della tendenza a conservarle pur quando fosse dileguato
il pericolo esterno, risale a un capitolare emanato nell’864 da
Carlo il Calvo, allora re nella Gallia settentrionale ed occidenta-
le. Egli ordina che siano disfatti i ripari costruiti dai potenti pri-
vati, i quali li utilizzano, dopo le incursioni, contro i vicini et
commanentes: contro i piccoli possessori residenti nello stesso
vicus in cui vi sono i beni signorili protetti dalla fortificazione, o
nei villaggi contermini. Questi castelli improvvisati diventavano
dunque strumento di predominio locale, consentendo un deciso
sviluppo in senso politico-militare di tendenze già presenti nel
latifondo romano e già in Gallia accentuate dall’aristocrazia fran-
ca ed ecclesiastica fin dall’età merovingia.
Si aggiunga che non sempre il potere regio si oppose alla
permanenza di fortificazioni in mano signorile. Non di rado anzi,
constatando l’insufficienza degli ufficiali pubblici nell’organizzare
la difesa territoriale contro le improvvise ondate degli invasori,
promosse il passaggio permanente di certe responsabilità militari
in mani diverse da quelle dei suoi rappresentanti. Nell’887 l’im-
peratore Carlo il Grosso, constatando che il vescovo di Langres
(in Champagne) senz’alcun aiuto di conte o altro ufficiale pubbli-
co sta conducendo a termine la ricostruzione della mura della
sua città di fronte alle incursioni dei pagani, decreta che il vesco-
vo e i suoi successori in perpetuo dispongano liberamente delle
mura, dello spazio ad esse circostante e di tutte le cose del fisco
pertinenti finora al conte nella città. Nel 906 il re d’Italia Beren-
gario I autorizza un diacono a costruire, per riparo dagli Ungari,
un castello nel Veronese, con torri e merli, precisando: «e posseg-
ga egli il tutto in piena proprietà» (cit. in L. SCHIAPARELLI, I diplomi
di Berengario I, Roma 1903, p. 177 sg.). Si noti che la fortezza costrui-
ta dal diacono è oggetto, negli anni seguenti, dei più vari contrat-
ti, come una parte qualsiasi del patrimonio privato in cui viene
inserita: il diacono ne dona la metà al conte di Verona, il quale a
sua volta la dona al monastero di Nonantola (abbazia nel Mo-
denese), mentre l’altra metà perviene alla vedova di un notaio.
Con l’ostilità o col favore dunque dei re, fortezze nuove o
restaurate entrarono, di fronte alle grandi incursioni dell’ultima
età carolingia o della prima età postcarolingia, nella libera pro-
prietà di signori laici e di chiese, come un qualsiasi bene priva-
to. Ciò avvenne nonostante lo schietto carattere pubblico della
funzione di una fortezza, opera militare pertinente per sua natu-
ra all’ordinamento politico: specie in quei regni di derivazione
germanica, per i quali, come sopra si è visto, il potere politico
tendeva ad esaurirsi nell’esercizio di un’attività militare e di poli-
zia o di un’attività giudiziaria connessa con la capacità militare di
imporre l’esecuzione delle sentenze. Il detentore di una fortezza,
specie quando disponeva di opportune clientele vassallatiche, ot
quando, in mancanza di queste o a integrazione di esse, dispo-
neva di squadre armate di famuli, reclutate tra i servi o tra altri
pertinenti al suo patrimonio (squadre che le fonti indicano spes-
so col nome di masnade), finiva con esercitare sul territorio pro-
tetto dalla fortezza un tipo di prevalenza, concorrente con quello
spettante agli ufficiali pubblici, o sostitutivo di esso.
Del resto, era stata tradizione costante di re merovingi e caro-
lingi, se non ancora, solitamente, di cedere positivi poteri di
governo ad enti estranei all’ordinamento pubblico, già tuttavia di
concedere con larghezza crescente privilegi di “immunità” dal
potere degli ufficiali pubblici: sul finire dell’età carolingia ne
godevano ormai quasi tutte le chiese vescovili e le ricche abba-
zie, nelle terre costituenti il loro patrimonio fondiario. La formu-
la di immunità suonava ad esempio così: «nessun giudice pubbli-
co osi entrare nelle terre della tale chiesa per esercitare il potere
giudiziario, per riscuotere ammende pubbliche, per esigere
albergarie (=alloggio e fornitura obbligatoria di viveri agli ufficia-
li regi in viaggio), per costringere con la forza (potere di polizia)
liberi o servi residenti in tali terre». (Così un privilegio di Carlo 
Magno (Monumenta Germaniae Historica, Diplomata Karolinorun,
 I, p. 99). Una simile ampiezza di immunità esprime palese sfiducia
 nell’attività degli ufficiali pubblici, di cui i capitolari carolingi
(la legislazione emanante dal re) deplorano esplicitamente le op-
pressioni, esercitate sia sui piccoli possessori, sia sugli uomini dipen-
denti dalle chiese. È manifesta la persuasione che poteri diversi da 
quelli pubblici – il potere di un abate o di un vescovo sugli uomini  
residenti su terra monastica o vescovile – possano esercitare una 
protezione efficace. In età postcarolingia avvenne che tali immunità
negative si sviluppassero spontaneamente nelle cosiddette immunità
positive, cioè nell’esercizio signorile di quei poteri di giurisdizione e di
costrizione che l’immunità negativa aveva sottratti agli ufficiali del
re. Le isole di immunità divennero isole di giurisdizione signorile,
analoghe e quelle che si andavano creando intorno alle fortezze
private. Lo sgretolamento dei comitati e delle marche – le circo-
scrizioni ufficiali dei regni – procedeva dunque da più direzioni:
dallo sviluppo delle immunità concesse da tempo alle grandi
chiese dai re; dalla moltiplicazione di aree di protezione militare,
pertinenti a fortezze estranee all’ordinamento pubblico; dal
rafforzarsi dei gruppi vassallatici e delle masnade servili intorno
ai potenti, fossero questi o no titolari di immunità o di fortezze.
Non era un graduale smembramento delle grandi circoscrizioni
pubbliche in distretti minori, di cui si possa supporre la preesi-
stenza all’interno di esse, bensì un progressivo sfaldarsi delle
divisioni territoriali a profitto di poteri imperniati su centri di
gestione fondiaria, su capisaldi militari signorili, su edifici eccle-
siastici, su elementi cioè caratterizzanti il paesaggio soprattutto
rurale ed esprimenti il coagularsi di interessi e di vincoli di di-
pendenza intorno a famiglie e ad enti localmente di grande pre-
stigio. E l’irradiarsi di questi poteri da tali elementi del paesaggio
non sfaldava il territorio pubblico in piccoli blocchi compatti,
bensì in sfere di influenza di consistenza ancora non chiara né
stabile, le quali non di rado si intersecavano e coesistevano con
residue attività del potere pubblico ufficiale: come appare dalle
ulteriori contese, dai tentativi che seguiranno di definire confini o
di distribuire diritti di giustizia e di esazione e di polizia fra più
centri interferenti fra loro in una medesima zona.

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